Gli Antichi mais piemontesi
Il mais, nel paesaggio agricolo attuale, occupa un ruolo rilevante. In alcune zone pianeggianti del territorio italiano, le superfici coltivate a mais si estendono per ettari, ma queste coltivazioni hanno poco a spartire con quelle dei secoli scorsi, sia per varietà impiegate che per l’utilizzo delle produzioni.
Gli ultimi 40-50 anni hanno visto una progressiva, rapida evoluzione delle pratiche colturali: meccanizzazione, coltivazioni intensive, massimizzazione delle produzioni, ricerca di varietà ed ibridi sempre più resistenti e produttivi, ecc. Guardando appezzamenti coltivati a mais, questi ci colpiscono per la loro estrema omogeneità: piante alla stessa altezza, vicinissime le une alle altre, pannocchie disposte su piani paralleli, a distanze sempre uguali.
La massima parte delle produzioni odierne è destinata all’alimentazione animale sotto forma di trinciati ed insilati, una percentuale molto inferiore è utilizzata per l’alimentazione umana.
Il mais ha una moltitudine di nomi, oltre a granoturco: il termine spagnolo maiz divenne meliga, da cui il piemontese melia, usato nel Pinerolese, meira a Chieri, malgon a Borgomanero, melicone nel Novarese, megra a Galliate. La saggina o sorgo, a cui il mais “rubò” il nome, finì con l'essere distinta con melietta o melia rossa o rosa.
Più curioso è il motivo per cui chiamiamo il mais granoturco: alcuni ne fanno risalire l'origine agli scambi tra la Serenessima Repubblica di Venezia e i Turchi; altri ad un errore di traduzione dall'inglese sul pranzo del giorno del ringraziamento dei Padri Pellegrini, in cui il contenitore (tacchino: turkey) venne scambiato con il contenuto (mais); altri ancora parlano semplicemente dell'associazione della barba delle pannocchie alle barbe dei musulmani.
Prendendo in considerazione il solo Piemonte, ed in particolare la Provincia di Torino, un valido supporto è quello rappresentato dal “Dizionario geografico, storico, statistico, commerciale dello Stato Sabaudo”, dal quale è possibile risalire a tutti i comuni sul cui territorio era coltivato il mais.
La voce “meliga” o “gran turco” compare nella maggior parte dei comuni della pianura torinese, ma si possono individuare tre grandi aree di produzione intorno al capoluogo:
Viene dato un particolare rilievo ad alcuni comuni (in ordine alfabetico):
IVREA: produzione media annua di 700,00 emine di meliga
MARENTINO: 1500 emine di meliga
NONE: Considerevoli sono i prodotti dei campi e si fanno copiose ricolte di frumento, segale, gran turco, legumi… Il commercio consiste nello smercio dei cereali eccedenti…
ORBASSANO: Assai fertile è il suolo di questo comune e fornisce particolarmente grano, meliga, segale… delle quali derrate gli abitanti fanno commercio specialmente con Torino, Pinerolo, Giaveno, Susa.
PIANEZZA: I prodotti in fromento ed in meliga non bastano alla consumazione locale
PINEROLO: I terreni coltivati a campi, di cui va crescendo il numero per solerzia dei possidenti, producono ogni specie di grani, ad eccezione del riso, ma in generale si fanno scarse ricolte di fromento, di segale e di meliga.
RIVAROLO: …produce in gran copia grani di ottima qualità, meliga, segale…
RIVALTA: Il suolo produce grano, meliga, segale, legumi… I terreni migliori si seminano per lo più due anni a fromento, uno a segale, ed uno a meliga; i mediocri un anno a fromento, ed uno a meliga, o si lasciano in riposo.
SCALENGHE: Il sovrappiù del grano, della meliga, e delle civaje vendesi nella città capoluogo di Provincia (Pinerolo).
PROVINCIA DI SUSA: 84,782 emine di meliga nel 1819 contro 92,359 di fromento e 25,753 di barbariato.
VIGONE: La meliga che per le foglie delle quali è
fasciata va meno soggetta ai danni della grandine ed offre il doppio vantaggio
di men dispendiosa coltivazione e di più moltiplicato prodotto, non ostante la
sua voracità nella nutrizione, da cinquanta anni acquistò molto credito, e
divenne per i meno agiati un oggetto di sano alimento, e per i proprietari un
oggetto di commercio.
La storia
L’introduzione del mais in Europa è attribuita a Cristoforo Colombo, che ricevette i semi dalle popolazioni indigene di Cuba e li portò in Europa nel 1493, di ritorno dal suo primo viaggio nel Nuovo Continente. Appartiene alla famiglia botanica delle Graminacee (Zea Mays L.) ed economicamente alla classe dei cereali. Le sue origini sono molte antiche ed incerte, infatti non si conosce allo stato di pianta spontanea. Colombo osservò estese colture nelle Indie occidentali e le successive esplorazioni nel XVI e XVII secolo rilevarono la presenza del mais in America meridionale (nell’area corrispondente all’attuale Cile ed Argentina) e settentrionale (a sud della regione dei Grandi Laghi), ma per alcuni studiosi la patria d’origine sarebbe l’America centrale (Messico). I mercanti lo portarono dalla Spagna all’Italia ed in seguito in atri paesi europei. Inizialmente veniva coltivato a scopo di studio in orti e giardini di appassionati botanici, ma la prima regione italiana a coltivarlo in campi veri e proprio fu il Veneto, dove venne introdotto prima del 1550.
Il germoplasma di mais reperibile in Italia è uno dei più ampi, sia per apporti originali, sia per differenziazione locale di forme. La rilevante partecipazione di Italiani alle prime spedizioni di scoperta delle Americhe, i legami storici che unirono gran parte delle regioni italiane con i Regni di Spagna nel periodo della scoperta e della conquista, ed infine il ruolo predominante svolto dalle flotte commerciali italiane nel traffici del bacino mediterraneo, favorirono la comparsa del mais in Italia e l’introduzione di molte forme, spesso direttamente dal Nuovo Mondo. Dal Veneto, il mais si diffuse in Friuli, dove la sua presenza è documentata dal 1580, quindi nel Bergamasco, all’epoca sotto il dominio di Venezia (città in cui è sicuramente commerciato dal 1632). A Milano, una grida del 1649 dispone l’apertura del mercato alla vendita del mais per contrastare la penuria di altri grani.
Le innumerevoli situazioni pedoclimatiche presenti sul territorio e le diverse modalità di coltura hanno poi dato origine ad un alto numero di varietà locali, che si sono bruscamente ridotte (ed, in alcuni casi, scomparse) a partire dagli anni Cinquanta con l’introduzione degli ibridi.
Nel 1938 si dice “Dopo il frumento, il Granoturco o Mais è – in Italia – il secondo prodotto, mentre occupa il terzo posto nella produzione mondiale dei cereali.” La coltivazione era molto diffusa sul territorio, praticamente in tutte le regioni: “non vi è regione o provincia nostra ove esso non sia, in grado maggiore o minore, coltivato.”
In alcune zone, l’utilizzo del mais già in passato era principalmente rivolto alla zootecnia. “Più comunemente e più estesamente, il mais si impiega nell’alimentazione del bestiame, sia come prodotto verde o insilato, sia sotto forma di granelli secchi oppure ammollati o ridotti in farina. Nell’alimentazione umana, il mais ha minimo impiego, localizzato, per lo più, in alcune zone della sua vasta area di coltura. Ad esempio, in Italia, i granelli delle varietà a cariossidi prevalentemente cristalline sono trasformati in farina con la quale si fa la polenta (specie nel Settentrione), mentre negli Stati Uniti, dopo aver subito qualche trattamento preliminare, sono utilizzati integri.”
Piccola parte della granella era anche impiegata per l’alimentazione degli animali da cortile, sia come pastone che come chicchi spezzati o di piccole dimensioni.
Altri testi invece mettono in evidenza il ruolo che il mais aveva nell’alimentazione quotidiana. “Il granturco ridotto in farina serve all’alimentazione umana che, in alcune regioni, è quasi esclusivamente basata su di esso. Le farine hanno, naturalmente, il colore dei chicchi: gialla, se gialli; bianca, se bianchi. Dal sistema di macinazione adottato si hanno varii generi di farine. Così, separando il germe, mediante setacciatura, si ottiene una farina granulosa simile ad un semolino più o meno fino cui si dà il nome di Granito o Farina bramata. In questo caso la macinazione non dev’esser molto fine. Se invece le macine od i cilindri sono molto accostati fra loro, si ottiene un prodotto molto più fino che, vagliato – per separarlo dalla crusca – è chiamato Macinafatto abburattato.
Il rendimento in farina del granturco non determinato è dall’80 al 90 %.
(…) Il difetto principale della farina di Mais è quello di mancare di vitamine e quindi una persistente alimentazione con questo cereale, produce una grave malattia chiamata Pellagra.
Con sola farina di mais non può farsi del pane inquantochè non è agglutinativa e perché non lievita.”
A metà del ‘900 tutte le principali operazioni colturali venivano fatte a mano. Le macchine furono introdotte solo dopo la prima guerra mondiale, ma quasi nessuno le possedeva. La coltura del mais era estremamente laboriosa e richiedeva un dispendio di energie e di tempo molto elevato, soprattutto raffrontato con il reddito che ne derivava ed è anche per questo motivo che le superfici seminate a mais erano molto inferiori rispetto a quelle a frumento. La vera meccanizzazione è successiva al secondo dopoguerra.
La semina era molto più tardiva rispetto ad oggi, infatti avveniva a fine aprile o addirittura all’inizio di maggio.
Non si lasciava mai il terreno completamente libero: il mais veniva seminato in rottura di un erbaio di trifoglio o di un prato. Essendo il frumento un cereale più pregiato, gli si destinavano i terreni migliori, più fertili; nella rotazione, il mais seguiva spesso il frumento. Il più delle volte non lo si irrigava, era sufficiente l’acqua piovana. Al più lo si seminava in terreni freschi prossimi a corsi d’acqua. La prima centrifuga per la captazione dell’acqua e l’irrigazione impiantata a Piscina di Pinerolo risale al 1939 ad opera dei signori Battagliotti e Smeriglio (frazione Bruera).
La semina avveniva in un primo tempo a mano, per file
tracciate, in tempi successivi si utilizzarono le prime macchine seminatrici,
via via più complesse. Quello della semina era il primo dei “riti” legati alla
coltura maidicola: spesso erano i bambini a provvedere alla tracciatura
utilizzando un piccolo carro a mano che, grazie alla sue ruote, imprimeva nel
terreno due solchi ad una distanza pari a quella voluta per le file, quindi si
seminava. Lo spazio tra le file era di 80-90 cm fino ad un metro, per
permettere il passaggio delle persone, dell’aratro e di altri attrezzi trainati
dagli animali.
Prodotti e produttori
Si contano nel mondo oltre 300 varietà di mais, diverse per forma e colore dei chicchi o per carattertische colturali.
Le sette varietà di mais piemontesi iscritte al Registro Nazionale delle Varietà da Conservazione della Regione Piemonte sono molto diversa l'una dall'altra, ognuna più adatta ad un uso specifico.
Il Nostrano dell’Isola di Quincinetto, per esempio, presenta una spiga “tradizionale”, dalla classica forma e colore arancio come siamo abitutati ad immaginarla pensando al granoturco. Con la farina di nostrano, tendenzialmente dolce, si prepara la polenta e si producono le miasse, prodotto tipico di Quincinetto.
La spiga della varietà Ostenga del canavese ha un colore più pallido, infatti la farina dà una polenta di colore bianco, eppure sono molti gli estimatori che la apprezzano per le particolari caratteristiche gustative.
Di varietà Pignoletto ne esistono due: il rosso o del canavese e il giallo o del torinese.
Quello rosso, con una spiga appunto dalle scure tonalità dell'arancio, è chiamato anche rostrato dente di cane, perché i chicchi del Pignoletto sono come orientati verso l'esterno della spiga e quelli di rosso sono molto inclinati e quasi appuntiti! Ottima la resa alla macinazione e di sapore intenso, la farina è utilizzata per la produzione di polenta e le famose paste di meliga. Si distingue dalle altre sette varietà perché è lievemente amarognola. Spesso è utilizzata in miscela con farina di altre varietà piemontesi. Anche il Pignoletto giallo si macina ottimamente e serve prevalentemente per una polenta dal sapore dolce.
Le varietà di Ottofile, dai semi larghi e appiattiti distribuiti su otto file (da qui il nome), si riconoscono bene le une dalle precedenti perché la spiga è molto più “magra” e, in base al colore dei chicchi, ne distinguiamo tre: il giallo di Torino (o di La Morra o Tortonese), l'Ottofile bianco e l'Ottofile rosso o dell'albese (di Alba).
Questi pregiati mais si caratterizzano per una notevole precocità colturale, cioè completano il loro ciclo produttivo in pochi mesi, il che li rende particolarmente adatti ad essere coltivati in montagna a bassa altitudine e con tecniche tradizionali che permette anche di dare un valore aggiunto alla granella prodotta (coltivazioni “biologiche”).
Il rischio di inquinamento genetico da parte degli ibridi di recente introduzione però è reale e queste vecchie varietà di mais sono esposte a pesanti contraffazioni. Numerosi per fortuna sono i progetti di valorizzazione che tutelano e promuovono prodotti trasformati a partire da farine di questi antichi cereali, ma non ancora un analogo presidio che si occupi, come è auspicabile, dalla tutela e della conservazione degli antichi mais di partenza. rischio di inquinamento genetico da parte degli ibridi di recente introduzione però è reale e queste vecchie varietà di mais sono esposte a pesanti contraffazioni. Numerosi per fortuna sono i progetti di valorizzazione che tutelano e promuovono prodotti trasformati a partire da farine di questi antichi cereali, ma non ancora un analogo presidio che si occupi, come è auspicabile, dalla tutela e della conservazione degli antichi mais di partenza.
Grazie agli studi di fattibilità ed alle sperimentazioni realizzate nel progetto La Dispensa Del Re, sono stati individuati e messi a punto trasformati che potranno dare ulteriore visibilità a questo eccellente prodotto:
- Gallette al mais
- Grissini al mais